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Immagine del redattoreM.

CI TROVEREMO, ANCORA E ANCORA

Faccio del mio meglio per sorridere sempre, anche se si vede che fingo. Lo faccio perché lui, riflesso nello specchio, non sorride mai.


Da piccolo mi guardavo, poi chiedevo a mia madre se avessi le corna. No, non hai le corna, tesoro; che idea buffa. Invece si, la figura nello specchio le ha, due lance appuntite e sottili che sbucano dalla fronte. Ossa coperte di pelle.


Se passo la mano sulla mia, di fronte, non sento niente. Le corna sono dall’altra parte.


Lui mi guarda e non sorride, non si muove. Forse sa che non può sottrarsi a quello che voglio fare.


Gli altri le corna non le vedono. Quello che vedono sono altri segnali.


Situazione: un rumore forte, acuto, mi fa sobbalzare. Risa.


Le lettere della lavagna si accavallano l’un l’altra; non le posso certo copiare. Stupore del corpo docente. La maestra che poi ha suggerito che avessi un lieve ritardo.


Il suono liquido di un collega che rimescola la saliva in bocca attorno a un filamento di grasso di prosciutto incastrato tra i molari. Ancora e ancora, per mezz’ora. Lo sguardo alterato quando suggerisco di passarsi quel cazzo di filo di nylon per pulire.


Stupidate, ecco cosa. Alla fine, si può anche imparare a stare seduti dritti, a non giocherellare con le matite, a non tamburellare con le dita. Si impara anche a guardare negli occhi e che ogni modo di dire ha un significato figurato, non letterale; parole che si inseguono rette da fili invisibili.


Il demone non è le corna, non davvero. Il demone è quello che manda la mente veloce quando non deve, e lenta tutto il resto del tempo.


 


I segnali c’erano tutti.


 


Ma ora c’è questo tubetto di plastica bianca con dentro tante belle pillole. Eccole. Faccio saltare con il pollice il tappo, ne prendo una in mano. Nello specchio sembra un coltello per il pane.


A farmi decidere non è stata mia moglie, non esattamente. È stata la casa piena di pacchi, la culla nuova che ho impiegato due settimane a montare, perché il demone non lasciava che mi concentrassi. È stato vederla con la schiena a pezzi e le occhiaie, sentire la sua voce come in differita durante una sfuriata del tutto giustificata.


Questa donna che mi ama e che ora non riesce più a sopportare la mia mancanza.


Vorrei che il demone, nello specchio, lo capisse. Che non lo uccido perché mi fa piacere. Ma sto per avere una figlia, e lui non può più mettersi in mezzo.


Inghiotto la pillola. Per un po’ non succede niente. Poi il demone, con il coltello in mano, comincia a segarsi via le corna. Dai suoi occhi, dai miei occhi, cola un sangue che sa di fango.


 


Un pizzicore mi intorpidisce la fronte. Sorrido, ora davvero. Non me l’avevano detto, che la lucidità assomigliasse alle linee dritte di un elettrocardiogramma. Né alti, né bassi.


Va bene così. Ho cose da fare, e finalmente posso. La casa: la sistemo alla perfezione. Mi assicuro che la culla sia montata bene, e il letto è pronto; persino i cuscini che a mia moglie piacciono tanto sono tutti sprimacciati.


Nemmeno la notte del parto riesce ad agitarmi. Sono la roccia stabile contro la quale mia moglie può lanciare le sue urla; la mano che può artigliare. Nelle orecchie sento, ovattata, una sonata di Bach.


Quattro ore dopo le ostetriche sollevano mia figlia, una cosa rossa che alza i pugni al cielo e grida. Mia moglie piange di gioia; gliela mettono tra le braccia. A questa bambina farò avere tutto, mi dico.


Poi la vedo, riflessa negli occhiali rotondi del ginecologo.


La faccia grigia di mia figlia, con due piccole corna.

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