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Immagine del redattoreM.

Opinione di minoranza

Per molti anni non c’era stato un solo granello di sabbia nel deserto. Per trovarne occorreva andare fino alle spiagge del Mar Rosso, sulle coste del Mediterraneo, o ancora fino al Pacifico.



C’erano invece: vasti campi coltivati a miglio, prati tagliati bassi, foreste piene di alberi per i cui nomi esistevano parole solo in una lingua straniera. Più all’interno c’era una giungla umida e fitta, puzzolente della mote di diecimila foglie cadute e gremita di creature schifose.

Nassir aveva atteso che l’abominio se ne andasse, o meglio che qualcuno si prendesse la briga di scacciarlo. Peccato che al governo e al popolo il nuovo clima piacesse. Persino certi preti cantavano a quella nuova abbondanza, scordandosi delle loro origini.

 

A forza di aspettare la punizione divina, gli era venuto il cancro ai polmoni. Forse era stato il fumo. Forse era stata l’industria tessile dove sparava la sabbia sui jeans degli occidentali, per farli apparire consumati e quindi alla moda. Si era licenziato.

Improvvisamente i soldi che aveva da parte erano più che sufficienti per vivere.



 


All’interno del paese il governo manteneva a malapena le strade pulite, tagliando la giungla ogni giorno. Anche le carovane erano sparite. Lo stato aveva messo i cammellieri alla guida di bus colorati, nuovi di zecca, con sponsor disgustosi per compiacere gli imperialisti. Tutti spendevano volentieri i loro soldi pur di venir a vedere il Miracolo Saudita.


I bus non arrivavano fino a Mada in Salih. La strada era troppo sporca. Si fermavano invece in una cittadina nuova che di autentico non aveva niente, ma tanto quei ghabiun non l’avrebbero capito.


Appena sceso fuori dall’aria sintetica del bus l’umidità gli strozzò la gola. E le zanzare. Quelle bestie succhiasangue erano comparse dappertutto. Quello i depliant del “Miracolo Saudita” non lo dicevano. Nassir tossì via sangue e fumò due sigarette in fretta, mentre cercava una guida per le tombe scansando le facce arrossate dei turisti.

Ne trovò uno. Aveva la sua età, ma non vestiva la kandura. Nassir provò un moto di disgusto per quello stronzo in camicia di lino e sandali; ma sapeva che si poteva mentire per una giusta causa.


«Cerco una guida.» L’uomo fece un gesto vago, come a indicare tutta la piazzetta dei parcheggi e gli ambulanti con le bancarelle piene di paccottiglia. Nassir prese dalla tasca il pendolo a foglia. Gli scottava in tasca, non perché il metallo scadente fosse caldo, ma per quanto gli facesse schifo. «Per la nuova fede.»


L’uomo lo guardò, poi finalmente annuì.



 

Il cammino per la tomba si faceva a colpi di machete. L’aria era così pregna d’acqua che Nassir aveva problemi ad accendere la sigaretta, in più goccioloni di sudore gli imperlavano la fronte. Se avesse raccontato a qualcuno che una volta quel luogo era stato pieno solo di rocce e sabbia, gli avrebbe dato del pazzo. I più giovani non lo sapevano. Ecco perché poi spuntavano fuori quelle religioni assurde.


Finalmente la giungla cedette il passo alla roccia Qasr al-Farid, anche quella quasi irriconoscibile con lo strato d’umido che la scuriva. Costeggiarono la parete finché la guida non gli indicò i gradoni e la facciata scolpita, i dettagli di quell’architettura millenaria coperti dai rampicanti.


«Il signore è là dentro,» disse la guida, indicandogli il vano che si apriva nella roccia come una piccola bocca.


Nassir strinse i pugni e s’incamminò nel corridoio stretto. Non gli sfuggiva l’ironia. Il popolo che aveva costruito quel sito era stato punito da Dio. Erano solo una masnada di idolatri. Era solo naturale che quella nuova fede si fosse stabilita nelle tombe di Hegra, come chiamata dal sangue di quegli antichi infedeli.


Superò una prima stanza quadrata, dove un gruppetto di giovani fumava hashisha. Cercò di ignorare le membra svestite avvinghiate tra loro in uno spettacolo osceno. Nessuno provò a fermarlo o a chiedergli cosa stesse facendo. Stupidi.


Li avrebbe volentieri maledetti ancora nella sua mente, ma la sala successiva lo fece bloccare sui suoi passi. Era bassa e quadrata, anch’essa coperta di rampicanti, dai quali fiorivano corolle bianche. Su dei supporti di legno erano state appese vecchie lampade ad olio, che spandevano una luce ambrata.


Al centro c’era un trono di viticci, sul quale sedeva una figura fatta della stessa materia. Si intuiva la forma di un uomo, se gli fossero state tolte le ossa, i muscoli, la pelle e tutti gli organi fatta eccezione per un intrico di rami nella forma di un apparato circolatorio.

La sagoma vuota girò la testa verso di lui mentre l’osservava.


«Nassir Nasr,» disse. La voce veniva dalla cavità tra quei viticci-vena, pur non essendoci alcun organo in grado di produrla. «I tuoi genitori di certo avevano un gusto per l’assonanza.»


Nassir ascoltò quella voce derisoria e ne fu spaventato. Ricordava come Mosè avesse udito la voce del Signore nel cespuglio in fiamme.


Subito dopo, Nassir fu disgustato dal suo stesso spavento. Così come conosceva il suo nome, di certo quell’essere conosceva anche il Corano, e se ne serviva per rendere schiavi le nuove generazioni, già deboli.


«Non infangare il nome di mio padre.»


La creatura si alzò. «Infangare?»


«Così come hai infangato il resto di questa nazione. Qui non vogliamo le tue piante, non vogliamo la tua acqua. Portala ad altri, magari a quei codardi degli israeliani. Il Signore ha già benedetto questa terra con la sua ricchezza e di te non c’è bisogno.»


«Il petrolio?» Le venature del falso dio sembrarono tremolare. «Lo vedo, eppure che bene porta all’arabo medio? Nessuno. I miei doni sono molto diversi.»


Nassir mostrò i denti. «Con me non funziona. Io so il tuo nome.»


Attratti dal rumore alcuni debosciati accorsero dall’anticamera. Uno di loro era un ragazzo mezzo nudo, con appena un accenno di barba. «Che succede?»


«Sembra che io non sia gradito.»


Nassir guardò il pavimento e trovò quello che cercava: un detrito dalla rovina, grande abbastanza da poter far danno, ma piccolo abbastanza da stargli in mano. Lo raccolse e prima che il giovane potesse far qualcosa lo scaraventò contro la figura di viticci.

«Possa tu essere per sempre scacciato, Iblīs!»


La maceria fece una voragine nel petto dell’uomo di tralci e si frantumò alle sue spalle, sullo schienale del trono di rami. La figura però rimase in piedi, indifferente. Subito dopo un vento fetido, come una profonda risata, attraversò le camere scure della tomba.

«Va bene! Allora andrò da un altro popolo; e porterò via i miei doni.»


La figura si decompose sotto il loro sguardo. L’aria umida s’era fatta pregna di una puzza orribile di uova marce. Il ragazzino guardò il trono vuoto e poi, con gli occhi sganati, Nassir.


«Che cazzo hai fatto?»


Nassir lo ignorò. Si coprì naso e bocca con la maglia, mentre si faceva strada verso l’uscita. Nella stanza attigua i giovani drogati si guardavano intorno come cani spauriti, mentre la puzza di decomposizione diventava sempre più presente. Non si respirava. Si alzarono in una calca per uscire fuori, ma Nassir era di fronte a tutti, sgomitando nel corridoio stretto.

Fuori dalla tomba le piante marcivano a una velocità inumana, prima che il sole ne seccasse le membra. Nassir uscì giusto in tempo per vederle irrigidire, poi un vento forte si alzò da est e cominciò a spazzarne via, violentemente, i resti. Più a valle si cominciarono a vedere i bus dei turisti e le loro paratie colorate risplendere al sole. Da quella distanza erano piccoli punti rotondi con le facce bianche e ovali, ma riusciva a intuire le loro espressioni di stupori.

I drogati arrancarono fuori dalla tomba e si coprirono gli occhi con le mani.


Nassir inspirò dalla bocca. Nell’aria c’era un caldo secco. S’accovacciò e infilò la mano nel terreno, che era coperto da un sottile strato di quelle piante schifose, ora polverizzate in una sabbia finissima e acre, assetata come una puttana, su cui non sarebbe potuto crescer nulla.

Di fronte a lui l’orizzonte era vasto, vastissimo.


Tossì due volte, poi gli venne da sorridere.

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